Finalmente è stata pubblicata la sentenza “madre” sulla questione dei “codici a secchio”. Un linguaggio un po’ .. particolare che creerà qualche problema di interpretazione che in un settore così particolare proprio non ci sta
Secondo i Giudici
… Va certamente esclusa la “presunzione di pericolosità” nei termini in cui vi si riferisce il Pubblico Ministero ricorrente ed il conseguente obbligo per il detentore del rifiuto di dimostrarne, attraverso analisi, la non pericolosità, dovendo in alternativa classificare comunque il rifiuto come pericoloso ostandovi, in maniera evidente, quanto indicato dai giudici di Lussemburgo nel punto 45 della sentenza.
Non può inoltre condividersi, sempre alla luce di quanto evidenziato dalla Corte di giustizia, il rilievo esplicitamente attribuito dal Tribunale al mancato espletamento, da parte degli inquirenti, di attività di analisi volta a dimostrare la pericolosità del rifiuto, accollando ad essi un dovere che la pronuncia pregiudiziale esclude, attribuendo al detentore del rifiuto (e non dunque, soltanto al produttore, che pure tale qualifica riveste), quando la composizione del rifiuto potenzialmente pericoloso non sia immediatamente nota, l’onere di raccogliere le informazioni idonee a consentirgli di acquisire una conoscenza sufficiente di detta composizione e, in tal modo, di attribuire a tale rifiuto il codice appropriato (punto 40).
Contrastano con le affermazioni del Tribunale anche le ulteriori precisazioni della Corte europea, laddove si esclude ogni margine di discrezionalità in capo al detentore del rifiuto circa la natura dell’accertamento, in quanto, sebbene non obbligato a verificare l’assenza di qualsiasi sostanza pericolosa egli deve comunque ricercare quelle che possano ragionevolmente trovarvisi.
Va peraltro osservato che la sentenza della Corte di giustizia, tanto nella risposta ai primi tre quesiti, quanto nella motivazione, porta ad escludere radicalmente la possibilità di arbitrarie scelte da parte del detentore del rifiuto circa le modalità di qualificazione del rifiuto ed accertamento della pericolosità.
In altre parole, ritiene il Collegio che il necessario riferimento della Corte europea, in precedenza richiamato, all’impossibilità di imporre al detentore del rifiuto irragionevoli obblighi sia dal punto di vista tecnico che economico, non può assolutamente, a fronte di quanto più diffusamente stabilito dai medesimi giudici, essere utilizzato come pretesto per aggirare le precise indicazioni circa le modalità di qualificazione del rifiuto, essendo chiaro che se la composizione del rifiuto non è immediatamente nota (circostanza che rende, evidentemente, non necessaria l’analisi) il detentore deve raccogliere informazioni, tali da consentirgli una “sufficiente” conoscenza di tale composizione e l’attribuzione al rifiuto del codice appropriato.
La raccolta delle informazioni, inoltre, va necessariamente effettuata secondo la precisa metodologia specificata, che non prevede esclusivamente il campionamento e l’analisi chimica, le quali, come espressamente indicato (punto 44), devono peraltro offrire garanzie di efficacia e rappresentatività.
Ciò porta anche a ritenere non condivisibile, ad avviso del Collegio, l’affermazione del Tribunale secondo cui “l’analisi del rifiuti ‘a specchio’, al fine di determinarne la pericolosità, deve riguardare solo le sostanze che, in base al processo produttivo, è possibile possano conferire al rifiuto stesso caratteristiche di pericolo” in quanto riduttiva rispetto alla metodologia individuata nella pronuncia della Corte di giustizia.
Quanto al principio di precauzione, la Corte di giustizia ne ha delimitato l’ambito di applicazione nei termini in precedenza ricordati.
qui la sentenza Cassazione penale 2019 47288