Anche nel caso in cui un impianto sia munito di autorizzazione per le emissioni in atmosfera, se produce “molestie olfattive”, si configura il reato di getto pericoloso di cose, non esistendo una normativa statale che preveda disposizioni specifiche e valori limite in materia di odori.
“L’imputato è stato condannato per il reato di cui all’art. 674 c.p., per avere provocato, in casi non consentiti dalla legge, emissioni di gas atte ad offendere le persone abitanti in prossimità del proprio impianto.
Anzitutto, questi eccepisce che l’autorizzazione alle emissioni, di cui l’impianto è dotato, si estenderebbe anche alle relative emissioni odorigene e che, per altro verso, le emissioni sono state contenute nei limiti dell’autorizzazione.
Ora, benché la Corte osservi che non esiste “una normativa statale che preveda disposizioni specifiche e valori limite in materia di odori”, per cui dovrebbe già venire meno l’elemento del reato “nei casi non consentiti dalla legge”, tuttavia, conferma la condanna dell’imputato. Non può, ripete la Corte, “riconoscersi automatica valenza scriminante alla produzione di emissioni odorigene pur realizzata nell’ambito dell’ordinario ciclo produttivo dell’impresa, ancorché regolarmente autorizzato”.
A questo punto, il ricorrente eccepisce che se la scriminante non è automatica, non lo deve essere neppure la condanna: per ritenere integrata la fattispecie dovrebbe farsi ricorso al criterio della normale tollerabilità di cui all’art. 844 c.c.. Anche questo, tuttavia, non piace alla Suprema Corte, giacché, piuttosto, “il parametro alla stregua del quale valutare la legittimità dell’emissione deve essere individuato nel criterio della stretta tollerabilità”.
Si tratta, in ogni modo, di un risultato interpretativo che, benché nobilmente ispirato a ragioni di tutela dell’ambiente e della salute umana, rischia di stridere con il principio di legalità e di stretta interpretazione della norma penale.
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